Un buon punto di partenza iniziale per rispondere al quesito, ci sembra quello di muoverci nella direzione indicata dalla Psicologia sociale, ossia quella branca della psicologia che studia l’interazione tra l’individuo e i gruppi sociali[1].
Di fronte a certi fatti di cronaca, ad omicidi, a certi crimini efferati, a fenomeni come lo stupro, la pedofilia, a certe condotte sadiche, o più banalmente davanti a certe interazioni presenti sui social o alla ordinarietà della cattiveria che questi due anni di pandemia hanno scoperchiato, e che la guerra in corso ha reso così esplicita, ognuno di noi resta disorientato e non può fare a meno di interrogarsi sulla natura degli esseri umani: siamo angeli o demoni? La nostra natura è malvagia o da qualche parte si cela, nascosta, anche una sorta di bontà d’animo? Di umanità, come si dice …
L’idea del mondo spaccato in due (da una parte i buoni e dall’altra i cattivi) ci piace molto e fatichiamo persino a metterla in discussione. L’idea predominante nella cultura occidentale è che certe azioni siano l’esito della personalità o del patrimonio genetico di chi le compie. Ne consegue che bisogna scavare all’interno di questi individui per capire le ragioni del loro comportamento (ἦθος, Ethos). La popolarità di tale idea è legata ai benefici che ne derivano sia per il Sistema/Potere, che così viene alleggerito dalla responsabilità di aver creato i presupposti all’attuazione del male, sia per chi non ha agito ancora in maniera malvagia, che in tal modo può continuare a ritenere di essere diverso “da quel genere di persone”.
La ricerca psicosociale cosa ci dice
Il risultato di numerosi studi condotti a partire dagli anni Sessanta sembrano rendere evidente il fatto che il male (nelle sue varie forme) possa, in verità, essere compiuto da chiunque venga a trovarsi in particolari situazioni[2]. Compiere il male significa attuare in maniera intenzionale una condotta che danneggi, oltraggi, umili, deumanizzi o distrugga una o più persone. Siamo, dunque, più fragili di quanto amiamo credere. Immersi in un certo “campo di forze” situazionali, infatti, potremmo mettere in atto comportamenti spietati che pure consideriamo estranei alla nostra natura.
Dalla ricerca emerge la concezione di un individuo in grado di agire in maniera estremamente crudele se posto in circostanze insolite esterne. Ci rifiutiamo di credere che possa essere così e come pronta risposta utilizziamo una serie innumerevole di difese psicologiche. Vogliamo sentirci al sicuro per arrivare a credere davvero che noi non siamo in grado di commettere azioni distruttive o brutali. Pensiamo che non ci capiterà mai di maltrattare qualcuno o di assistere inerti a scene di violenza: queste cose le fanno gli altri, i cattivi …
Eppure, ciò che si ricava dalla ricerca in psicologia sociale è che non è importante conoscere chi agisce, ma in quale contesto l’azione ha luogo, facendo vacillare l’immagine di un essere umano assertivo e in grado di affrancarsi da tutto. Traspare, quindi, una figura pesantemente plasmata da molteplici fattori esterni. Le situazioni sociali sembra possano avere sul comportamento e sul funzionamento mentale di individui, gruppi e leader nazionali effetti più profondi di quanto non crederemmo possibile. Alcune situazioni possono esercitare un’influenza così potente su di noi da indurci a comportarci in modi che non avremmo previsto e che mai avremmo potuto prevedere. Il potere situazionale è soprattutto importante in contesti nuovi, cioè in quelli in cui le persone non possono fare appello a “sentieri” già percorsi in precedenza. In tali circostanze le abituali strutture di ricompensa si modificano e le aspettative sono invalidate. Ossia, gli schemi anticipatori utilizzati usualmente, non hanno più alcuna utilità predittiva. Le caratteristiche personologiche e identitarie sono di scarso aiuto, poiché dipendono dall’anticipazione di azioni future elaborate sulla base di esperienze pregresse o di repliche di risposte caratteristiche passate in situazioni note, ma raramente o mai adoperate nel tipo di situazione nuova che si affronta in quel momento. Quindi, ogniqualvolta cerchiamo di comprendere le ragioni o le cause di un comportamento insolito, strano, nostro o altrui, secondo i risultati della ricerca in psicologia sociale, dovremmo partire dall’analisi della situazione. Solo quando il lavoro di indagine basato sulla situazione non riesce a trovare un senso, solo allora dovremmo dare ascolto alle analisi disposizionali (geni, tratti di personalità, patologie, sistema di costrutti personali, ecc..)[3]
Libero arbitrio e condotta razionale appaiono, quindi, pure illusioni quando la persona opera in contesti insoliti. In più, è inoltre impossibile anticipare la propria condotta semplicemente immaginando una certa situazione: la conoscenza astratta di un contesto impedisce di coglierne le caratteristiche più sottili, l’atmosfera affettiva o il proprio coinvolgimento emotivo, esattamente come sarebbe pretendere di saper nuotare solo avendo letto un manuale sul nuoto.
Non esistono i “cattivi” o i “buoni”
Sembra allora che la malvagità non sia appannaggio esclusivo di individui devianti o pazzi, ma che chiunque possa infierire contro un altro essere umano. La classica e semplicistica dicotomia tra bene e male era certamente più rassicurante e compatibile, in quanto permetteva un orientamento facile negli intrecci della morale e un’immediata identificazione dei cattivi e dei buoni. Con questa “bussola” era facile sapere che loro, i cattivi, erano responsabili di crimini e violenze e che erano personaggi da tenere a distanza. Noi, i buoni, incorruttibili, avevamo alloggio dalle parti della moralità. Il Male, visto in una prospettiva binaria, non richiede nessuna riflessione impegnative sui fattori culturali, sociali e psicologici coinvolti nella sua genesi e, inoltre, ha un sapore comodamente assolutorio per noi cittadini modello.
Ciascuno è potenzialmente un carnefice
La psicologia sociale racconta un’altra storia, quella in cui ciascuno è potenzialmente un carnefice. Si tratta di una narrazione basata su numeri, evidenze sperimentali che assottigliano lo scarto tra buoni e cattivi fino ad annullarlo del tutto[4]. Né totalmente virtuosi, altruisti, sensibili e nemmeno interamente disonesti, egoisti, indifferenti. In quanto esseri umani, siamo tutto questo, un amalgama di caratteristiche discordanti che il principio di coerenza dispone in scomparti accuratamente frammentati e separati e che il ripetersi della vita quotidiana mantiene tali: osserviamo noi stessi e gli altri nei soliti contesti, lasciamo che i ruoli sociali siano ad interagire. Diventa invece impossibile anticipare ciò che sarà di noi e degli altri quando le dinamiche situazionali si mischiano in modo tale da creare condizioni nuove e impreviste.
Sono davvero pochi gli individui che, in quanto “malvagie”, compiono il male in maniera deliberata perché amano farlo. Nella maggior parte dei casi, la violenza estrema origina da normali processi psicologici ed è perpetuata da persone comuni in circostanze extra-ordinarie.
[1] Cfr. Serge Moscovici, Psicologia Sociale, Edizioni Borla, Roma, 1989.
[2] Cfr., Piero Bocchiaro, Psicologia del Male, Laterza, Roma-Bari, 2009.
[3] Cfr, ibid, pp. 3-7.; Cfr. Phil Zimbardo, The Lucifer Effect, Random House, New York, 2007, pp. 318-319.
[4] Cfr. Adriano Zamperini, Prigioni della Mente. Relazioni di Oppressione e resistenza, Einaudi, Torino, 2004.