Un tempo la donna assumeva una propria identità e realizzazione personale nel far figli e nell’accudire la prole (questo era il suo compito principale, a parte la cura della casa e il preparare da mangiare), ad oggi non è più così. La donna, al pari dell’uomo, si può realizzare e quindi trarre gratificazione in vari ambiti e in vari modi; la maternità rappresenta solamente una dimensione della propria vita e del proprio essere donna, non più l’unica ed esclusiva.
Eppure sono comunque in tante le donne che nonostante percorsi di studio impegnativi, lavori – talora anche con ruoli e incarichi importanti – e una vita sociale e personale appagante, cercano e desiderano avere figli. Perché? Perché nonostante l’evolversi dell’idea e del concetto di essere donna e nonostante siano stati fatti passi in avanti in merito all’emancipazione femminile, il desiderio più antico di questo mondo continua a rimanere forte e ancorato in molte di noi?
Iniziamo col dire che non tutte desiderano avere dei figli e quindi prendiamo le distanze da posizioni assolute e rigide: “tutte vogliono figli” oppure “no kids”. Ritengo che avere o meno un figlio sia prima di tutto una scelta personale oltre che di coppia e che come tale, debba essere rispettata. Non possiamo partire dal presupposto che una donna debba necessariamente essere madre per sentirsi completa e appagata o al contrario, se è intelligente e ha un curriclum doc non sceglie di fare figli.
La popolazione femminile che opta per la maternità è molto variegata: ci sono donne comuni e donne con livelli d’istruzione alti, altre ancora con lavori e incarichi importanti; e ancora, donne con famiglie alle spalle pronte a fornire supporto e aiuto e altre che non possono contare su ausili familiari, donne con condizioni economiche agiate o quantomeno decorose e altre in lotta con le difficoltà di far quadrare il bilancio familiare a fine mese… un mondo di donne diverse ma tutte accomunate dal desiderio di avere figli.
Sono in tanti a pensare, come la filosofa Francesca Rigotti autrice del libro “Partorire col corpo e con la mente”, che il desiderio di maternità sia in realtà un bisogno primario che ad un certo punto della propria vita incomincia ad emergere fino ad intensificarsi, anche se realizzato ad età e in tempi diversi e talora, invece, non concretizzabile.
Altri studiosi ancora vedono nella maternità la concretizzazione della generatività che ciascuno di noi ha interiorizzato e che trova una delle sue espressioni proprio nell’accudimento e nella crescita dei figli.
Forse molto più genericamente si può pensare che ciò che spinge una donna a cercare la maternità possano essere fattori in parte genetici e biologici (siamo
geneticamente predisposte per procreare) e in parte psico-affettivi, legati sia alla propria idea di donna e quindi alle aspettative e progetti ad essa legati sia ai modelli femminili di riferimento (a livello familiare e sociale).
Sulla base della mia esperienza professionale, tuttavia posso dire che è difficile fare delle generalizzazioni, perché ciascuna donna è un mondo a sé, con una propria storia personale, di coppia e familiare e quindi i motivi che possono spingere alla maternità possono essere vari e diversi.
E non credo che sia tanto importante soffermarsi sul perché, quanto semmai sul fatto che nonostante i tempi moderni, le donne continuano a voler essere anche madri e quindi desiderano avere figli… magari in numero inferiore rispetto al passato, ma comunque li vogliono.
Oggi molte donne, per diverse ragioni, non sempre per scelta, non diventano madri. Ma come affrontare la scelta di non essere madri oppure il vuoto che provoca una maternità mancata?
Alcune donne vivono tale scelta consapevolmente ma nel momento in cui si confrontano con gli altri in merito alla decisione assunta, possono sentirsi screditate, con un vissuto di minor valore rispetto alle donne madri, esperendo conseguentemente situazioni di imbarazzo, mettendo in atto comportamenti schivi e di ritiro dal contesto sociale, dietro cui spesso si cela una sofferenza e, in taluni casi, dinamiche psicologiche più profonde non elaborate.
In altre circostanze, a una donna, pur desiderando un figlio, non è data la gioia della maternità. Le cause dell’infertilità della coppia possono essere di diversa origine: congenite oppure conseguenti a sopraggiunte patologie, o anche derivanti dall’aumento dell’età media in cui si cerca di concepire un figlio. Sicuramente la medicina ha fatto progressi importanti in questo ambito ma molte sono ancora le situazioni e le motivazioni in funzione delle quali, nonostante l’esistenza di pratiche cliniche specifiche, continua a non essere possibile concepire.
Non essere madre, qualunque sia la motivazione, porta con sé dolore e sofferenza spesso non riconosciuta e trascurata.
Se la motivazione si basa su una scelta di vita, è possibile che la donna sia vittima di pregiudizi e considerazioni che possono creare turbamenti, chiusura e dolore. Non vedere riconosciuta, nel contesto sociale in cui si vive, la propria condizione di donna indipendentemente dall’essere anche madre, può generare vissuti molto dolorosi.
In questo scenario, una donna con una carriera soddisfacente a livello personale (non per forza in termini economici), quindi appagante per sé stessa, può passare in secondo piano nella considerazione del valore della persona se non è anche mamma.
Se essere mamma non è una scelta, l’isolamento sociale si aggiunge alla grande sofferenza già presente a causa dell’impossibilità di diventare genitore. Questo genera dolore, fatica nel riconoscimento di sé come persona di valore e nell’accettare un cambiamento così importante nel proprio progetto di vita. L’impossibilità di realizzare il desiderio di maternità procura una ferita estremamente dolorosa, nei confronti della quale le persone possono vivere un profondo senso di solitudine. L’investimento affettivo sul bambino immaginato si tramuta in vissuto di perdita. Un processo complicato dal sopraggiungere di sensi di colpa, sentimenti di ingiustizia, di invidia e di impotenza.
Ancor di più la perdita di un figlio mai nato è un lutto non riconosciuto, spesso rimosso da meccanismi di difesa che proteggo dall’entrare in contatto con vissuti di angoscia ed emozioni di intensa sofferenza.
Childfree
Esiste da decenni e si chiama “childfree” il movimento americano di donne che non desiderano avere figli. È una realtà che esiste anche in Italia ma fa fatica a prendere piede perché qui da noi è ancora molto forte il mito della maternità, secondo cui una donna trova il vero scopo della propria vita solo quando diventa madre.
Eppure esistono moltissime donne che, talvolta anche fin da giovani, non sentono alcun desiderio di diventare madri e che addirittura scelgono di farsi sterilizzare chirurgicamente per non rischiare gravidanze indesiderate. Le motivazioni possono essere le più disparate, ma ciò che accomuna spesso queste persone è essere vittima di un pregiudizio secondo cui sarebbero aride ed egoiste.
Non è molto diverso da quello che succede alle donne che decidono di
interrompere volontariamente una gravidanza: la società continua a guardarle con sospetto e un velo (a volte ben più di un velo) di biasimo. Se poi queste donne dopo una IVG addirittura non si sentono traumatizzate o in colpa, lì il biasimo si trasforma facilmente in disprezzo. C’è questa idea di fondo che la maternità sia una dimensione quasi paradisiaca in cui la donna scopre la propria vera natura e gode nel sacrificare se stessa ai bisogni di un esserino del tutto dipendente da lei. Ma la verità è che la maternità è tutt’altro che facile e tutt’altro che rosea. È dura anche per chi un figlio lo ha tanto desiderato e cercato.
In ogni caso essere madre non è un destino, è una scelta, è un atto di responsabilità verso un’altra persona che viene al mondo. Io sono del tutto convinta che sia un atto di responsabilità anche decidere di non mettere al mondo un figlio. Una donna che decida di interrompere una gravidanza perché sente di non poter garantire ad un figlio l’accudimento
materiale o affettivo che meriterebbe, sta facendo una scelta di responsabilità, tanto quanto la donna che decide di metterlo al mondo nonostante le difficoltà.
Lo vedo continuamente in terapia, ogni donna prima o poi si confronta col tema della generatività e lo fa sulla base della propria storia, dei propri bisogni, dei propri desideri, delle circostanze in cui si trova. Lo fa e arriva a delle scelte che sono sempre motivate e pertanto andrebbero comprese, rispettate, non giudicate da nessuno, perché nessuno può coglierne totalmente l’essenza tranne la diretta interessata.
La maternità è un’esperienza del tutto personale, sia per chi la sente propria che per chi la avverte come estranea. Ci sono donne che da sempre sognano una famiglia numerosa, altre che provano disagio al pensiero di un figlio, altre che tentano in ogni modo di avere una gravidanza attraverso lunghi e difficili percorsi di procreazione assistita, altre che decidono di interromperne una o anche più di una nella vita quando restano incinte.
Sono esperienze personali e diverse ed è impossibile tracciare una mappa universale delle motivazioni che spingono una donna a volere figli e un’altra a non desiderarne affatto. Sono esperienze diverse ma al tempo stesso accomunate da una caratteristica: la estrema soggettività della dimensione della maternità.
Non bisogna necessariamente essere madri per essere materne e capaci di prendersi cura di qualcuno che si ama: amici, parenti, compagni/e, cani, gatti e conigli. E non è necessario procreare per essere generative a questo mondo. Moltissime donne che non hanno potuto o voluto mettere al mondo dei figli hanno cambiato il corso della storia, hanno dato il proprio prezioso contributo alla società, alla scienza, alla cultura, hanno lasciato un segno indelebile nelle vite di chi le ha conosciute. Una delle più importanti terapeute familiari, Virginia Satir, non ebbe figli e si occupò con successo enorme di aiutare bambini, adolescenti e le loro famiglie a risolvere i loro problemi e stare bene. Non è forse questo un atto generativo? Non è forse anche questo un modo di mettere o rimettere al mondo qualcuno o qualcosa?
Maternità e generatività non sempre coincidono con l’essere madre, così come essere madre non sempre coincide col partorire un figlio. In tutti i casi, il valore di una donna non sta nel dare alla luce dei figli. Ma, come scrisse Lawrence D.H., “nel dare alla luce se stessa, questo è il suo destino supremo e rischioso”.